Elio e gli altri. Quel che ci dicono i gas nobili del mantello terrestre
di Andrea Luca Rizzo
I vulcani sono una tra le straordinarie manifestazioni della natura sulla Terra e di come questa sia spesso incontrollabile dall’uomo, che ha comunque imparato a conviverci sebbene ancora oggi talvolta non la rispetti e ne ignori i pericoli. Lo studio dei vulcani, anche attraverso l’analisi delle composizioni dei gas emessi e delle rocce eruttate, nonché il tentativo di prevedere le eruzioni, sono tutti aspetti legati a processi che si originano all’interno della Terra. Qui la rifusione del mantello terrestre, costituito da rocce chiamate peridotiti, porta alla formazione dei magmi.
La fusione del mantello terrestre è un processo molto complesso che dipende in buona parte dal contesto geodinamico, in altre parole dalla tettonica delle placche. Uno degli esempi di cause di fusione del mantello è la subduzione che si genera in quelle zone della Terra dove due placche litosferiche entrano in collisione ed una delle due subduce, cioè si spinge al di sotto dell’altra penetrando nel mantello sottostante fino a diverse centinaia di km di profondità. A tali profondità, la placca libera dei fluidi che riescono ad abbassare la temperatura di fusione delle rocce circostanti generando così i magmi (Figura 1).
Figura 1 – Schema di subduzione di una placca più densa (crosta oceanica) rispetto ad un’altra meno densa (es. crosta continentale), laddove il rilascio di fluidi dalla porzione di placca subdotta induce la fusione parziale del mantello e quindi la formazione di magmi che risalendo generano i vulcani di arco.
I magmi che si formano nelle zone di subduzione hanno una composizione chimica che riflette quella della roccia del mantello che li ha generati, ma anche quella dei fluidi liberati dalla placca subdotta che hanno indotto la fusione. Questi fluidi, a loro volta, riflettono la composizione del materiale di cui è costituita la placca. I magmi generati sono meno densi della roccia circostante, grazie ai fluidi disciolti in essi, e tendono a trovare una o più vie di risalita. Essi si originano a profondità attorno al centinaio di km (nel mantello terrestre), e risalendo attraversano la crosta fino a raggiungere la superficie terrestre laddove generano i cosiddetti vulcani di arco (Figura 1). Durante la risalita, i magmi rilasciano i gas disciolti attraverso un processo che è chiamato degassamento magmatico. Questi gas raggiungono la superficie in anticipo rispetto al magma che li ha liberati, rappresentando una sorta di telegramma che il magma invia ai vulcanologi e a chi effettua la sorveglianza, contenente informazioni cruciali per la ricostruzione della storia di quel magma ed eventualmente per la previsione di una eruzione.
Non tutti i gas disciolti riescono ad allontanarsi dal magma. Una piccola parte è intrappolata all’interno dei minerali che cristallizzano per primi (olivine e pirosseni) sotto forma di microbolle chiamate inclusioni fluide (Figura 2). Quando lo studio dei gas vulcanici non consente di ricostruire la storia dei gas disciolti nei magmi alla profondità del mantello terrestre, perché intervengono altri processi più superficiali a modificarne la composizione (es. contaminazione crostale ed atmosferica durante lo stazionamento dei magmi in crosta) o perché i gas vulcanici sono irraggiungibili per questioni di accessibilità alle aree sommitali, allora lo studio delle inclusioni fluide presenti nei minerali diventa l’unica opportunità di accesso ad informazioni “profonde”.

Sotto i vulcani andini
Un esempio molto noto di vulcanismo di arco è quello del Sudamerica (Figura 3). Qui, il processo di subduzione di litosfera oceanica (placca di Nazca) sotto la litosfera continentale lungo un fronte di migliaia di chilometri ha generato una imponente catena di vulcani, ovvero le Ande. Recentemente sono stati studiati alcuni vulcani attivi della Colombia e dell’Ecuador (Figure 3 e 4), per i quali le informazioni sulla composizione di alcuni gas disciolti nei magmi a profondità del mantello e poi emessi in superficie dai vulcani erano parziali o del tutto assenti, così come era poco chiara l’eventuale influenza dei fluidi rilasciati dalla placca subdotta sulla composizione del mantello circostante.

Più in dettaglio, lo studio scientifico ha riguardato la composizione elementare ed isotopica dei gas nobili leggeri (elio, neon ed argon) intrappolati come inclusioni fluide all’interno di minerali magmatici, prevalentemente olivine e pirosseni (Figura 2), eruttati da alcuni vulcani attivi di Colombia ed Ecuador (Figura 3). È bene ricordare che, nell’ambito della ricerca scientifica, i gas nobili ed in particolare i loro rapporti tra isotopi (3He, 4He, 20Ne, 21Ne, 22Ne, 40Ar, 38Ar, 36Ar) sono considerati degli ottimi traccianti geochimici, cioè consentono di ricostruire (tracciare) l’origine e la storia evolutiva di un fluido dal mantello fino alla superficie terrestre, grazie alle peculiarità chimico-fisiche di ciascun isotopo. Alcuni esempi di rapporti isotopici dei gas nobili diagnostici sono: 3He/4He, 4He/20Ne, 20Ne/22Ne, 21Ne/22Ne, 40Ar/36Ar, 3He/36Ar, 4He/40Ar. I rapporti isotopici che contemplano neon ed argon sono utili ad identificare la contaminazione atmosferica nei fluidi, che spesso riguarda anche i gas disciolti nei magmi o nel mantello, poiché questi elementi sono molto più abbondanti in atmosfera rispetto all’interno della Terra. Il rapporto isotopico dell’elio (3He/4He) è più diagnostico per lo studio dei fluidi nel mantello e nei magmi, per due ragioni fondamentali: 1) i due isotopi dell’elio hanno origini profondamente differenti: l’3He è di provenienza cosmogenica (cioè è strettamente legato alla radiazione cosmica) ed è stato intrappolato all’interno della Terra al momento della sua formazione, l’4He deriva dal decadimento radioattivo di U e Th per cui è più tipicamente contenuto nella crosta terrestre; 2) l’elio è presente nel mantello terrestre in concentrazioni comparabili a quelle in atmosfera, per cui risente poco della contaminazione da parte di fluidi atmosferici a differenza di neon ed argon.
Lo studio dei gas nobili nelle inclusioni fluide (Figura 2) delle rocce dei vulcani di Colombia ed Ecuador (Figure 3 e 4) ha consentito di dedurre che la composizione di questi gas nel mantello al di sotto degli archi vulcanici Andini è simile a quella osservata in altri vulcani generati dalla subduzione di crosta oceanica, contrariamente a quanto indicato dai gas vulcanici ed idrotermali emessi dagli stessi vulcani. Inoltre, i fluidi rilasciati dalla placca in subduzione non alterano la composizione isotopica dell’elio del mantello, che rimane confrontabile a quella attesa per i magmi eruttati nelle dorsali oceaniche, mentre modificano quella di neon ed argon che assumono rapporti isotopici prossimi a quelli in atmosfera. Ciò è dovuto al fatto che la placca di Nazca “ricicla” nel mantello del materiale che contiene fluidi di origine atmosferica ma non U e Th. Un esempio sono i minerali delle argille che contengono una componente acquosa marina che ha disciolti neon ed argon di origine atmosferica i quali, una volta rilasciati dalla deidratazione (rilascio fluidi) della placca, contaminano il mantello circostante. Invece, l’enorme spessore di crosta continentale su cui si sono sviluppati questi vulcani andini (Figura 3) ha un ruolo determinante nel “contaminare” l’elio, cioè nel modificare il rapporto 3He/4He dei gas disciolti nei magmi che stazionano in crosta e che alimentano i gas vulcanici. La contaminazione sarebbe conseguenza dell’elevata concentrazione di uranio e torio presenti nella crosta continentale che, nel tempo, decadono producendo 4He e facendo diminuire il rapporto 3He/4He, cui si accoppiano lunghi tempi di stazionamento dei magmi prima della loro eruzione.

In conclusione, questa ricerca dimostra che lo studio dei gas nobili nelle inclusioni fluide dei minerali è utile a ricostruire la storia del mantello terrestre e dei magmi che in esso si generano, contribuendo a chiarire le peculiarità che distinguono i vari vulcani di arco presenti sulla Terra. Questo approccio scientifico ha validità globale e può aiutare lo sviluppo di protocolli di monitoraggio che prevedano anche l’utilizzo dei gas nobili.
Bibliografia
Lages, J., Rizzo, A.L., Aiuppa, A., Samaniego, P., Le Pennec, J.L., Ceballos, J.A., Narvaez, P.A., Moussallam, Y., Bani, P., Schipper, C.I., Hidalgo, S., Gaglio, V., Alberti, E., Sandoval-Velasquez, A. (2021). Noble gas magmatic signature of the Andean Northern Volcanic Zone from fluid inclusions in minerals. Chemical Geology, 559, 119966. doi.org/10.1016/j.chemgeo.2020.119966