Anatomia di una catastrofe vulcanica: Nevado del Ruiz, Colombia, 13 novembre 1985

di Lucia Pappalardo

Il 13 novembre del 1985 il vulcano colombiano Nevado del Ruiz, entra in eruzione dopo quasi 70 anni di riposo, generando quello che è noto come il più devastante lahar (parola di origine indonesiana che indica flussi di fango e detriti di origine vulcanica) della storia e annientando le città di Chinchinà e di Armero.  Il bilancio delle vittime (23.000) è al quarto posto nella storia delle catastrofi vulcaniche, dopo quelle dei vulcani Tambora nel 1815 (92.000) e Krakatau nel 1883 (36.000), entrambi in Indonesia, e della Montagne Pelée, in Martinica, nel 1902 (28.000).

Figura 1 – Il cratere fumante del vulcano colombiano Nevado del Ruiz. Fotografia tratta da Servicio Geológico Colombiano  (SGC). (fonte: Twitter. https://twitter.com/sgcol/status/1463269108481466371).
Figura 1 – Il cratere fumante del vulcano colombiano Nevado del Ruiz. Fotografia tratta da Servicio Geológico Colombiano  (SGC). (fonte: Twitter. https://twitter.com/sgcol/status/1463269108481466371).

Il Nevado del Ruiz è parte dell’“Anello di Fuoco”, una regione che circonda per circa 40 mila chilometri l’Oceano Pacifico, dove è concentrata la maggior parte dell’attività sismica e vulcanica del mondo; in particolare il Ruiz è parte di una catena di vulcani allineata da nord a sud lungo la Cordigliera andina.

Figura 2- Mappa dei 21 vulcani attivi della Colombia, dal  Servicio Geológico Colombiano. Il Nevado del Ruiz è il quarto a partire da Nord. I colori indicano lo stato di attività del vulcano: verde=  parametri monitorati stabili, giallo= alcune variazioni nei parametri monitorati.
Figura 2 – Mappa dei 21 vulcani attivi della Colombia, dal  Servicio Geológico Colombiano. Il Nevado del Ruiz è il quarto a partire da Nord. I colori indicano lo stato di attività del vulcano: verde=  parametri monitorati stabili, giallo= alcune variazioni nei parametri monitorati.

L’eruzione del 1985 non fu improvvisa ma anticipata da attività sismica persistente, attività fumarolica e freatica sin dal novembre dell’anno precedente. In seguito all’intensificarsi di questi fenomeni, un team di esperti colombiani e internazionali (provenienti dagli USA, Svizzera, Ecuador, Francia, Italia, Nuova Zelanda e Costa Rica) installarono nuovi sismografi durante la tarda primavera e l’estate del 1985. I dati misurati confermarono elevati livelli di attività sismica che furono considerati possibili precursori di una eruzione vulcanica imminente; in effetti, un rapido aumento dell’attività sismica all’inizio di settembre culminò, alcuni mesi prima dell’eruzione, in un’ esplosione freatica (11 settembre) con emissione di vapore acqueo e cenere, dovuta alla repentina vaporizzazione di acqua sotterranea surriscaldata dal magma in risalita.

Nello stesso periodo l’“Instituto Nacional de Investigaciones Geológico-Mineras” (INGEOMINAS) della Colombia definì le mappe di pericolosità dell’area, evidenziando chiaramente la minaccia dei lahar per la città di Armero e i villaggi circostanti (Figura 2). Tuttavia la mappa, pubblicata il 7 ottobre in forma preliminare, non fu diffusa tra la popolazione poiché considerata allarmistica dalle autorità locali. Durante un’intervista il sindaco di Armero dichiarò che molte persone “non sanno se rimanere o andar via” e che il comitato regionale di emergenza “non ha sufficienti informazioni né risorse finanziarie per intervenire in caso di catastrofe. Per questo motivo, la popolazione non ha fiducia nella veridicità delle informazioni e affida a Dio la propria sorte”.

Figura 3 – L’immagine riproduce la mappa dei rischi definita dall’INGEOMINAS prima della catastrofe; in grigio è indicata l’area considerata potenzialmente a rischio di lahar, mentre in rosso è stata successivamente sovrapposta l’area effettivamente distrutta dai lahar dell’eruzione del 13 novembre. Immagine da United States Geological Survey (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Armerodisastermap.png)
Figura 3 – L’immagine riproduce la mappa dei rischi definita dall’INGEOMINAS prima della catastrofe; in grigio è indicata l’area considerata potenzialmente a rischio di lahar, mentre in rosso è stata successivamente sovrapposta l’area effettivamente distrutta dai lahar dell’eruzione del 13 novembre. Immagine da United States Geological Survey (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Armerodisastermap.png)

In particolare i rilievi geologici condotti dall’INGEOMINAS avevano indicato che la città di Armero e i villaggi circostanti erano sviluppati proprio su antichi depositi di lahar originati da precedenti eruzioni esplosive, avvenute nel 1595 e nel 1845, che avevano dunque già distrutto questi territori, a quel tempo tuttavia molto meno popolati. Il geologo Bruno Martinelli che tramite il servizio geologico svizzero era in Colombia per monitorare il vulcano scriveva: “il pericolo di lahar non era solo evidente anche ai non esperti, ma dopo l’esplosione dell’11 settembre non c’era nessun dubbio, che delle misure dovevano essere prese per far fronte a questo pericolo”.

Nonostante tutte queste evidenze e il coinvolgimento della comunità scientifica internazionale, il sistema di gestione dell’emergenza non riuscì ad evitare la catastrofe. Cosa dunque non funzionò quel 13 novembre di 37 anni fa?

Ripercorriamo gli eventi che portarono a quella che è nota come “la tragedia di Armero”

Il 13 novembre alle ore 15:05 (ora locale), l’eruzione viene anticipata da un’esplosione freatica simile a quella avvenuta l’11 settembre; la cenere trasportata dal vento cade nei paesi intorno al vulcano fino ad Armero a 48 km di distanza a E-NE del vulcano.

Nell’arco di un’ora, il direttore della protezione civile locale e il direttore dell’INGEOMINAS allertano la protezione civile regionale che pianifica l’evacuazione. Tra le 17:00 e le 19:00 la caduta di cenere si arresta e alcuni superstiti raccontano che dalle radio locali arrivano messaggi rassicuranti, tra cui anche quelli di un sacerdote di Armero che si rivolge alla popolazione attraverso gli altoparlanti della chiesa, consigliando di rimanere a casa e usare un fazzoletto per coprire naso e bocca in caso di pioggia di cenere. Nel frattempo, il Comitato regionale di emergenza si riunisce e al termine della riunione, verso le 19:00, decide di allertare le autorità locali e le stazioni di polizia di Armero e delle città circostanti, che avrebbero dovuto gestire l’evacuazione. Ma a questo punto non è chiaro se l’ordine di evacuazione sia stato effettivamente impartito alla popolazione di queste città, probabilmente in parte per lo scetticismo delle autorità locali e in parte a causa di un forte temporale che causa interruzioni elettriche intermittenti per tutta la serata. La forte pioggia e i tuoni inoltre potrebbero aver sopraffatto il rumore generato dal vulcano, che oltretutto non era visibile da Armero, lasciando gli abitanti completamente ignari dell’attività in corso. Durante la serata, le forti piogge e una partita di calcio internazionale spingono la maggior parte degli armeriani a rimanere in casa.

Alle 21:08, ha inizio nella parte sommitale del vulcano l’eruzione magmatica esplosiva. L’eruzione è relativamente di piccola magnitudo (Indice di Esplosività Vulcanica 3) e genera flussi di materiale piroclastico caldo che, scorrendo lungo i fianchi del vulcano, sciolgono parte della neve ed anche della calotta di ghiaccio presente sulla vetta. Tale processo origina torrenti di acqua mista a materiale piroclastico, che confluendo nelle valli prendono in carico fango e detriti formando i cosiddetti lahar. Dalle 21:45 alle 22:00, i funzionari della protezione civile regionale cercano invano di mettersi in contatto via radio con Armero per sollecitare l’evacuazione. Verso le 22.45 una di queste colate di fango si incanala nella valle del fiume Cauca, sommergendo il villaggio di Chinchinà a 25 km di distanza a ovest del vulcano, qui tuttavia la maggior parte degli abitanti sono allertati dalla protezione civile, sebbene 1927 persone rimangono uccise e più di 200 case distrutte.

Figura 4 - Veduta aerea di Armero dopo l’arrivo del lahar. Immagine da United States Geological Survey. (https://www.usgs.gov/media/images/armero-destroyed-lahars-nevado-del-ruiz-volcano-colombia)
Figura 4 – Veduta aerea di Armero dopo l’arrivo del lahar. Immagine da United States Geological Survey. (https://www.usgs.gov/media/images/armero-destroyed-lahars-nevado-del-ruiz-volcano-colombia)

Alle 23:35 un’onda di fango alta quasi 40 metri ad una velocità di 50 km/h, incanalatasi nel canyon di Lagunillas, seppellisce per sempre la città di Armero e 21.000 dei suoi abitanti. Un secondo lahar arriva alle 23:50, seguito da una serie di impulsi più piccoli, l’ultimo all’01:00. Secondo le testimonianze di alcuni sopravvissuti l’elettricità va via poco prima dell’arrivo del lahar. Subito dopo si avverte il fragore della colata di detriti che in pochi attimi rade al suolo la città, inclusi gli edifici di cemento armato, poiché in grado trasportare anche enormi blocchi, che come grosse ruspe, demoliscono qualsiasi costruzione o infrastruttura.

I racconti dei pochi sopravvissuti sono impressionanti e testimoniano lo scetticismo delle autorità locali che impedì di prendere decisioni risolutive che avrebbero potuto e dovuto invece evitare la catastrofe: “Ascoltavamo la radio, ma in nessun momento ci è stato detto di lasciare la città. Dicevano semplicemente di mantenere la calma… forse era la voce del sindaco ma non ne sono certa”.  Secondo una testimonianza il Sindaco di Armero, poco prima di essere travolto dal lahar, stava discutendo tramite la sua radio amatoriale della situazione con un membro della Protezione civile che si trovava a Ibagué, a circa 70 km di distanza. Questi ricorda che il Sindaco “non pensava che ci fosse molto pericolo”, “diceva che sperava che tutto finisse e che preferiva rimanere con la sua famiglia nella loro casa di Armero”. Le sue ultime parole rivelano la sua sorpresa: “Aspetta un minuto. Penso che la città si stia allagando“!

Dalla ricostruzione degli eventi emerge che il primo lahar invade la città più di due ore dopo l’inizio dell’eruzione, un tempo che sarebbe stato sufficiente a lanciare l’allarme e dare la possibilità alla popolazione di raggiungere anche a piedi un’altura salvando così la propria vita. Alcuni tra i sopravvissuti hanno riferito di aver ricevuto avvertimenti non ufficiali per telefono solo da parenti e amici. Questi allarmi molto probabilmente provenivano da Líbano, che si trovava a circa 15 km a monte di Armero, abbastanza vicino al fiume dove la colata di fango era chiaramente udita, anche se non vista a causa dell’oscurità. Le famiglie così allertate, che agirono rapidamente, ebbero il tempo di scappare. Altri tra i sopravvissuti riferiscono che stavano dormendo verso le 23:00 e di essersi allarmati solo dopo aver sentito persone correre e gridare per le strade dopo che la prima delle ondate di fango aveva raggiunto la comunità. Chi si trovava più vicino alle zone più alte della città ed ebbe la prontezza di dirigersi in quella direzione, riuscì a mettersi in salvo anche fuggendo a piedi, per tutti gli altri 21.000 non ci fu via di scampo dalla morte nel fango.

I soccorsi

Anche i soccorsi furono difficilissimi, perché il fango che aveva sepolto la città era simile alle sabbie mobili rendendo difficilissimo il lavoro di recupero dei sopravvissuti, che nel frattempo morivano per le ferite e il freddo; solo 65 tra i circa 1000-2000 rimasti intrappolati nel fango furono salvati. Fra tutte rimase tristemente famosa la storia di una bambina di tredici anni, Omayra Sánchez, e in particolare di una sua fotografia scattata dal fotografo Frank Fournier e premiata l’anno successivo al World Press Photo. La bambina rimase prigioniera delle macerie e del fango per due giorni e tre notti prima di morire per un attacco cardiaco; i soccorritori cercarono di liberarla, ma le attrezzature per il salvataggio non arrivarono in tempo.

Si ritiene inoltre che molti bambini separati dalle loro famiglie nelle ore e nei giorni immediatamente successivi al 13 novembre, e riconosciuti dai genitori in fotografie o video in braccio agli operatori della Croce Rossa, siano poi successivamente scomparsi, probabilmente dati in adozione a famiglie residenti all’estero poiché erroneamente creduti orfani.

Figura 5 – Il Nevado del Ruiz fotografato da un membro dell'equipaggio della Expedition 23 sulla Stazione Spaziale Internazionale. E’ ben visibile la calotta di ghiaccio sulla vetta, alta 5370 m. Immagine da NASA (https://earthobservatory.nasa.gov/images/43859/nevado-del-ruiz-volcano-colombia)
Figura 5 – Il Nevado del Ruiz fotografato da un membro dell’equipaggio della Expedition 23 sulla Stazione Spaziale Internazionale. E’ ben visibile la calotta di ghiaccio sulla vetta, alta 5370 m. Immagine da NASA (https://earthobservatory.nasa.gov/images/43859/nevado-del-ruiz-volcano-colombia)

Cosa ci ha insegnato la triste storia di Armero e delle 23000 vittime dell’eruzione? “A Ruiz la maggior parte delle condizioni desiderabili per una gestione di successo del rischio erano in effetti presenti. La geologia e la geocronologia erano state studiate, erano stati mappati i depositi di flusso e di lahar che avevano colpito la zona nel passato. Era presente la comunità scientifica internazionale, erano state fornite attrezzature per il monitoraggio, un mese prima dell’evento cruciale era stata prodotta la mappa di hazard e i governi nazionali, provinciali e locali erano stati allertati. L’eruzione magmatica fu di piccola scala e i suoi effetti noti. Pertanto, la catastrofe non fu causata da difetti tecnologici, né da un’eruzione violenta, né da una successione di eventi sfortunati. Invece la tragedia di Armero fu dovuta ad un insieme di errori umani, indecisioni e miopia burocratica. Le autorità non furono disposte a sostenere i costi economici o politici di un’evacuazione anticipata o di un falso allarme, e ritardarono l’azione all’ultimo minuto”. “Armero avrebbe potuto non avere vittime, e qui dimora la sua immensa tragedia”. Cosi conclude l’analisi sugli eventi che colpirono Armero, Barry Voight il noto vulcanologo della Penn State University che tra i primi documentò la catastrofe vulcanica (B. Voight, 1990, 1996, 2013).

Dopo l’eruzione

Dopo l’eruzione del 1985, il governo colombiano ha sviluppato un Sistema nazionale di gestione dei rischi da disastri naturali (National Disaster Risk Management System of Colombia), che oggi a 37 anni dalla catastrofe, ha consentito al Paese di disporre di un quadro normativo e di una politica nazionale di gestione dei rischi naturali. L’organismo principale è il Servicio Geológico Colombiano (ex INGEOMINAS), incaricato di monitorare i vulcani attivi del paese in tre osservatori di vulcanologia e sismologia situati nelle città di Manizales, Popayán e Pasto.

Così, quando nel 2008 un altro vulcano colombiano, il Nevado del Huila, è entrato in eruzione generando un lahar fino a due volte più forte di quello del Nevado del Ruiz, la popolazione a rischio è stata rapidamente evacuata e messa in salvo. D’altro canto il “Leone addormentato”, come il Ruiz viene soprannominato dai colombiani, ha dato segni di risveglio negli ultimi 10 anni caratterizzati da attività sismica, fumarolica e freatica, e nonostante il riscaldamento globale, la presenza di ghiaccio sulla sua vetta, alta 5370 m, è sempre imponente e il rischio di lahar sempre alto.


Bibliografia

Voight, Barry. (1990). “The 1985 Nevado del Ruiz volcano catastrophe: anatomy and retrospection,” Journal of Volcanology and Geothermal Research. 44. 349–386. 

Voight, B. (1996). The Management of volcanic emergencies: Nevado del Ruiz. In R. Scarpa and R. Tilling (eds.), Monitoring and mitigation of volcano hazards, Springer Verlag, Berlin and Heidelberg, pp.719-769

Voight, B., Marta L. Calvache, Minard L. Hall, Maria Luisa Monsalve (2013). Nevado del Ruiz Volcano.,Colombia 1985. In, Peter T. Bobrowsky (ed.), Encyclopedia of Natural Hazards, DOI 10.1007/978-1-4020-4399-4, Springer Science+Business Media B.V.

Servicio Geologico Colombiano, 2022 -. http://www.sgc.gov.co/.

Global Volcanism Program, 2022. Ruiz, Nevado del (507608) in [Database] Volcanoes of the World (v. 5.0.0; 1 Nov 2022). Distributed by Smithsonian Institution, compiled by Venzke, E. https://doi.org/10.5479/si.GVP.VOTW5-2022.5.0.