Prodigi – parte terza
Racconto di Mario Mattia
Disegni di Catherine Lemercier
Continua da parte seconda
Il mattino successivo, appena sveglio, Riccò si precipitò in cucina perché aveva sentito il rumore di qualcuno che stava preparando la colazione. L’anziana governante di casa Errera fece un grido appena lo vide arrivare all’improvviso.
«Professore…mi fici scantari!» protestò.
«Ah…mi scusi. Credevo fosse Maria»
«Maria…chi sapemu unni ci luciunu l’occhi!» disse la donna.
«Quindi ancora non è tornata?»
«Ma quale! Mi doveva aiutare a fare le bottiglie di salsa…dda sciamunita!»
Riccò consumò in fretta la sua colazione e si affacciò alla finestrella della cucina per vedere il cielo. Che si presentava grigio e minaccioso di pioggia.
Errera arrivò poco dopo scrollandosi dal cappotto le prime gocce.
«Giornata infame, caro Riccò, oggi non se ne parla di verificare la posizione dell’eruzione. Ho appena parlato col nostro maestro elementare, il signor Teti, che la accompagnerà a visitare il tratto di costa che si è sollevato l’anno scorso. E ci sarà anche un impiegato comunale che conosce alla perfezione tutta l’isola.»
«Benissimo…sarò ben felice di misurare questo famoso sollevamento. Ma…ci sono notizie di Maria?»
L’uomo allargò le braccia e scosse la testa sconsolato.
«Niente…io e mia moglie cominciamo anche ad essere preoccupati. Infatti, non verrò con voi perché voglio andare a parlare col delegato di polizia.»
Riccò assentì e andò a prendere il suo impermeabile e il suo ombrello.
«Sono pronto» disse mentre indossava un curioso cappello a grandi falde, dono di un collega americano in visita all’Osservatorio astronomico dell’Etna.
Il maestro e l’impiegato lo aspettavano su un calessino poco lontano da Sant’Elmo. Il primo era un uomo grasso e con due baffoni, mentre il secondo era un ometto magrissimo, basso di statura e indossava una specie di divisa blu. Gli occhi e l’espressione erano però quelli di una persona intelligente.
Si avviarono verso Pantelleria e restarono qualche minuto al porto per verificare le condizioni del mare. Un forte vento rendeva impossibile la navigazione anche alla poderosa stazza del «Bausan» che spiccava tra le piccole barche a remi e a vela ancorate accanto.
«Possiamo andare, se lei è d’accordo» disse il piccolo impiegato aggiustandosi il berretto di foggia militare che rischiava di volare via per il vento.
Riccò assentì e si alzò il bavero dell’impermeabile perché il cielo, piano piano, diventava sempre più scuro e minaccioso.
Un improvviso temporale li costrinse a ripararsi in un deposito di attrezzi e, appena la pioggia si attenuò, proseguirono per Punta Pozzolana. Qui, Riccò rimase a bocca aperta ad osservare la linea di costa con la striscia di organismi incrostanti che si trovavano almeno cinquanta centimetri sopra la linea dove batteva il mare, sollevati da una poderosa spinta tettonica. Lunghe strisce bianco-giallastre con alghe rinsecchite e altri organismi morti, imprigionati nei buchi che loro stessi avevano praticato nel basalto delle rocce. Alla Spiaggia delle Balate si divertì come un bambino a raccogliere campioni di alghe incrostanti che si trovavano almeno ottanta centimetri lontane dalla loro posizione di vita normale. Ebbe l’impressione che quelle lunghe rocce biancastre che si allungavano verso il mare agitato fossero le dita adunche di una mano che si stava per sollevare. Alcuni pescatori, attirati dalla grande macchina fotografica che Riccò aveva montato sopra un improvvisato treppiede, raccontarono che la costa si era sollevata, dieci giorni prima, in una sola notte, tra il quattordici ed il quindici ottobre. Alcuni di loro si vantarono di aver raccolto frutti di mare restando seduti sopra gli scogli. Più a sud, a Cala Cinque Denti, lo scienziato ammirò lo spettacolo offerto dalle contorte e stratificate rocce vulcaniche dove era ancora visibile la linea di costa sollevata. Approfittò per staccarsi dal gruppetto di accompagnatori e curiosi per affacciarsi da un rostro di roccia. Qui, le onde, con paurose risacche, gli si scagliavano contro schizzando schiuma bianca per decine di metri verso l’entroterra.

Stava ancora fissando quello spettacolo sublime quando il piccolo impiegato comunale lo raggiunse, stretto nelle spalle e con le mani nelle tasche della sua divisa.
«Professore, la osservo da un po’. C’è qualcosa che non va?»
Riccò restò in silenzio qualche secondo mentre un’onda si gonfiava e scaricava il suo carico d’acqua e minuscole goccioline che lo sferzarono in faccia.
«Sono preoccupato per una persona che è sparita da due giorni» disse.
«Lo so. Errera mi ha detto di Maria»
«La conosce?»
L’uomo strabuzzò gli occhi.
«Certo! Sono io che l’ho portata da Errera quando i marinai l’hanno buttata sulla banchina del porto. È una brava ragazza. L’hanno scorso mi ha aggiustato la spalla. Mi era uscita dopo una caduta dal tetto del mio dammuso! E non chiede mai soldi per queste cure.»
Riccò annuì e continuò a guardare verso il mare in tempesta.
«Al porto qualche giorno fa c’era una persona che la cercava» disse l’omino. Lo scienziato si voltò.
«Chi la cercava?»
«Un giovane. Un tipo strano con una giacca chiara. È sceso dalla nave che viene da Palermo.»
«Come sapete che cercava proprio lei?»
L’uomo sorrise e alzò le spalle.
«Io qui conosco tutti. Ha chiesto di lei all’osteria del porto e gli hanno detto che stava a casa di Errera. Diceva di essere un suo parente. Anzi, diceva di essere suo fratello.»
«Deve andarlo a dire al delegato!» disse Riccò agitandosi.
«Forse lo farò stasera, quando torniamo. Prima però deve vedere una cosa.» disse l’impiegato voltandosi a guardare il mare con un sorriso amaro.
Giovanni carissimo,
Fuori piove a dirotto e io sono tornato da poco a casa dopo un pomeriggio e una serata che non esito a definire strana.
Non credevo, non pensavo.
È un’isola unica questa, Giovanni, capace di confondere anche una persona solida come me. E di far vacillare il castello di razionalità che la mia origine emiliana e soprattutto la mia formazione scientifica, sottintende. Già immagino i sorrisi di scherno tra te, Luigi e Federico De Roberto mentre leggi questa mia ad alta voce, in una di quelle serate di deliziosa discussione e confronto cui spesso ho avuto l’onore di partecipare. Ma non m’importa. Queste lettere saranno l’unica testimonianza di quanto sto vivendo e vedendo al di là degli aspetti scientifici.
Oggi un impiegato comunale, dopo una bellissima visita ad un lungo lembo di costa che è stato sollevato prima dell’eruzione, mi ha mostrato qualcosa di incredibile.
Con i muli che ci ha prestato il maestro Teti, siamo andati nella grande area craterica di Piano di Ghirlanda e, dopo una terribile salita verso la costa, siamo arrivati in uno strano terreno a forma trapezoidale. Già prima di arrivare in questo fondo avevo notato delle colonne inglobate nelle mura della casa e della stalla. L’impiegato mi ha fatto notare che si tratta di antiche vestigia riutilizzate per più recenti costruzioni. Al termine del nostro percorso arrivammo in quello che il proprietario chiamava «giardino del nespolo» (chissà che non sia una citazione del tuo «I Malavoglia»!) e ci colpì subito la visione di un enorme masso dove erano scavate alcune celle allungate di forma prismatica. Solo grazie all’intercessione dell’impiegato, il proprietario ci ha portato in un magazzino dove mi ha mostrato cosa avesse trovato (solo un mese fa!) in quella roccia, ovvero due casse di legno molto vecchio, con delle strane cerniere di argento. L’uomo le aprì e dentro c’erano i resti di due persone. Gli scheletri erano ridotti a poca cosa, solo dei pezzetti di pietra grigia che però tracciavano i lineamenti del cranio, delle braccia e delle gambe. Ma ciò che mi ha sbalordito furono gli indumenti trovati insieme a questi due corpi, ad avviso di tutti di sesso femminile. Una indossava una tunica di color verde smeraldo e l’altra una veste rossa. E entrambe portavano come ornamento dei gioielli.
Non avevo mai visto gioielli antichi di fattura così superba.
Due diademi d’oro e pietre preziose circondavano il cranio dei due cadaveri e orecchini di foggia antica adornavano quelle che un tempo furono le orecchie delle due donne sepolte. Una collana di pietre azzurre trasparenti era poggiata sul petto di una delle due. L’altra donna indossava una splendida collana in filigrana d’oro e due bracciali che, mi ha confessato il proprietario del terreno, un suo parente aveva portato a Palermo per provare a stimarne il valore.
«Sono tempi difficili» aggiunse allargando le braccia, forse perché aveva notato il mio sguardo di disappunto.
L’uomo ha accettato di farmi vedere questo incredibile ritrovamento solo in cambio della mia assoluta discrezione. Ma devo dire che tutte le pietre, i diademi, le vesti sono passate in secondo piano quando l’impiegato ha fatto una precisa domanda all’uomo.
«Chi ti ha fatto trovare queste cose?»
«Maria, la ciarmavermi. Vinni cca, guardò in giro, si mise in ginocchio e mi indicò il punto esatto dove scavare. Disse che dovevo fidarmi di lei e io così ho fatto.»
Io lo incalzai chiedendogli cosa avesse avuto Maria in cambio.
«Nenti – rispose – solo la promessa che non le avrei mai vendute o portate via. Altrimenti, mi disse, c’era una maledizione che ci avrebbe colpito tutti se portavamo via qualcosa. Disse pure che mi avrebbe fatto sapere a chi consegnarle in cambio di una ricompensa. E io di Maria mi fido e mi scantu.»
Dovetti mantenere il controllo e promettere ancora che non avrei rivelato a nessuno l’esistenza di quelle due sepolture.
La mia giornata adesso si è conclusa e sono rientrato a casa, infreddolito e perplesso. E ho deciso che domani, appena avrò tempo, andrò io stesso a cercare questo strano giovane che è venuto da Palermo a cercare Maria. Ho una sensazione brutta.
Ti abbraccio
Annibale
L’indomani mattina, di buon’ora, Riccò ed Errera concordarono con il comandante della Bausan una nuova ispezione presso la zona dell’eruzione, allo scopo di verificare se rispondesse al vero quanto segnalato dal capitano di una torpediniera della Regia Marina e cioè che l’eruzione si fosse esaurita. Errera raccontò allo scienziato che il delegato aveva cominciato a cercare Maria, ma senza troppa convinzione. Una ciarmavermi non è una persona rispettabile e quindi l’avrebbe cercata solo dopo avere risolto cose più urgenti.
Si congedò con la promessa che si sarebbero rivisti dopo pranzo e corse in fretta verso l’osteria che si trovava accanto al castello medievale dove il piccolo impiegato comunale lo aspettava.
«Professore – esordì l’uomo – stamattina presto mi sono fatto un giro e penso di avere trovato la persona che cerchiamo, l’uomo con la giacca grigia. Certi amici miei lo hanno visto ieri in giro dalle parti di Sciuvechi, dove ha preso una stanza. Se ci sbrighiamo, forse lo troviamo.»
I due saltarono in sella ai due muli che aveva portato con sé l’impiegato e, dopo mezz’ora, arrivarono in vista di una collina terrazzata e coltivata con le solite viti bassissime, quasi striscianti. L’uomo indicò con la mano una casetta bianca. Le imposte erano aperte. L’ombra di qualcuno vestito di bianco si fermò davanti alla finestra e sembrava guardasse verso lo splendido mare azzurro, luccicante sotto il sole di un mattino luminoso. Riccò bussò alla porta con un certo timore.
«Chi siete?» disse il giovane dai tratti arabi, scuro e con lunghi capelli neri che venne ad aprire.
«Mi chiamo Annibale Riccò, sono uno scienziato. Ho saputo che state cercando Maria. È vero?»
«Voi sapete dov’è?» rispose il giovane dopo essere rimasto qualche secondo in silenzio davanti alla porta del dammuso.
«È sparita da tre giorni e la stiamo cercando anche noi. Voi non sapete nulla di lei?»
L’uomo corrucciò la fronte e si fece da parte.
«Entrate» disse.
Il dammuso era piccolissimo e le uniche sedie disponibili erano occupate da vestiti, tra i quali Riccò noto una giacca grigia chiara.
«Come fate a conoscere Maria?» disse lo scienziato.
L’uomo sorrise e per un po’ restò in silenzio a fissare la punta delle sue scarpe. Poi alzò la testa e fissò negli occhi il professore.
«Sono suo fratello» disse.
Riccò si sedette tenendo lo sguardo fisso sul suo volto.
«Maria è sparita quando siete arrivato voi.»
«Lo so – rispose il giovane – me lo ha detto la cameriera della signora Errera. Io sono venuto qui perché lei mi ha scritto una lettera. E in questa lettera diceva che aveva paura.»
«Maria mi aveva detto di essere sola al mondo.»
«In un certo senso è vero. Io e lei veniamo da Malta. Siamo figli di pescatori. Mia madre è morta e mio padre ci ha messi su una nave per Palermo, dove io sono stato cresciuto da un falegname della Marina e lei da una mavara. Ci vedevamo raramente. Poi, una settimana fa mi manda una lettera dove chiede aiuto perché la vogliono ammazzare. Eccola qua.» disse l’uomo porgendo un foglio di carta stropicciato scritto con una grafia larga e infantile.
«Chi la voleva ammazzare?» chiese l’impiegato che intanto era rimasto in piedi davanti alla porta.
L’uomo alzò le spalle.
«Non lo so. Qua c’è scritto anche che dovevo aiutarla a portare a Palermo le due principesse.»
Riccò si raddrizzò nella sedia.
«Quali principesse?»
«Diceva di averle trovate qui. Quelle che a Palermo aspettano da tanto tempo. Così c’è scritto.»
Riccò annuì.
«Qualcuno che sa dove sono c’è» disse lo scienziato.
L’uomo fece una risata ironica.
«Anche io ho saputo della truvatura. Ma ancora non ho incontrato nessuno che sappia dove si trovano. Voi lo sapete?»
Riccò strizzò gli occhi e si voltò a guardare verso l’imponente mole di Montagna Grande, l’unico rilievo visibile da ogni lato dell’isola, un blocco sollevato e ricoperto da una fitta boscaglia, quasi al centro dell’isola.
«No. Ne abbiamo solo sentito parlare. Adesso torniamo al porto. E lei, se vuole, può venire con noi a cercare Maria» disse rivolto al fratello.
L’uomo abbassò il capo in segno di ringraziamento.
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