L’eruzione del Pinatubo del 15 giugno 1991: gli effetti dell’eruzione e quelli della (riuscita) comunicazione

di Gianfilippo De Astis e Laura Sandri

Il 15 giugno del 1991 è ricordato fra i vulcanologi per una delle maggiori eruzioni vulcaniche avvenute sulla Terra negli ultimi 100 anni: l’eruzione del vulcano Pinatubo, nelle Filippine. In effetti, quella data contrassegna la fase più violenta dell’eruzione che stiamo per raccontarvi, le cui avvisaglie erano iniziate perlomeno a partire dal marzo di quell’anno. Ci sembra opportuno segnalare che ancora oggi persistono ipotesi scientifiche secondo le quali già il terremoto del 16 luglio del 1990 (Magnitudo M= 7.8, epicentro a circa 100 chilometri a Nord-Est del vulcano) possa essere stato il vero incipit di questo evento vulcanico.

Lo stratovulcano Pinatubo si trova a circa 90 km da Manila, sull’isola di Luzon, che è parte di un arco vulcanico legato alla subduzione, in un’area di interazione complessa tra varie micro-placche in movimento rispetto alla placca Eurasiatica, fra cui quella del Mar delle Filippine, che subduce (scivola) sotto la prima (Figura 1).

Figura 1 - La complessa disposizione e dinamica delle placche e micro-placche nella regione delle Filippine. I numeri riportati a fianco delle frecce nere indicano la velocità di spostamento in millimetri all’anno (crediti: Wikimedia Commons).
Figura 1 – La complessa disposizione e dinamica delle placche e micro-placche nella regione delle Filippine. I numeri riportati a fianco delle frecce nere indicano la velocità di spostamento in millimetri all’anno (crediti: Wikimedia Commons).

La storia del Pinatubo si ritiene sia caratterizzata da due fasi, con la prima iniziata circa 1,1 milioni di anni fa e la seconda iniziata intorno a 35.000 anni orsono, dopo un periodo di riposo di diverse decine di migliaia di anni.

Per una serie di cause che vedremo nel seguito, tra cui la presenza di una base militare americana vicino al Pinatubo che ha fatto sì che anche l’USGS (il Servizio Geologico degli Stati Uniti) venisse coinvolto nella gestione dell’emergenza, l’eruzione del 1991 è straordinariamente ben documentata. Soprattutto essa è particolarmente famosa per le riuscite operazioni di evacuazione e soccorso di circa 58.000 persone, condotte grazie allo sforzo congiunto del PHIVOLCS (l’Istituto Filippino di Vulcanologia e Sismologia) e del Volcano Disaster Assistance Program dell’USGS. Considerando il XX secolo, quella del Pinatubo del 1991 è considerata la seconda più grande eruzione vulcanica dopo quella del Novarupta (in Alaska) del 1912. Il Pinatubo, però, ha avuto un grande impatto su un’area densamente popolata (cosa che non è possibile invece dire per il vulcano dell’Alaska), dal momento che solo in prossimità del vulcano abitavano circa 30000 persone.

Per energia e volume di magma emesso, l’eruzione del Pinatubo è stata associata a quella del Vesuvio del 79 d.C. Nel 1991 il Pinatubo era in una fase di quiescenza (Figura 2), secondo alcuni scienziati da circa 800 anni, secondo altri da 500 anni, ed anche questo prolungato periodo di riposo lo accomuna alla famosa eruzione del vulcano napoletano.

Figura 2 - Il Pinatubo così come appariva prima dell’eruzione del 1991: un picco vulcanico come tanti (fotografia di R.S. Punongbayan - USGS - pubblico dominio).
Figura 2 – Il Pinatubo così come appariva prima dell’eruzione del 1991: un picco vulcanico come tanti (fotografia di R.S. Punongbayan – USGS – pubblico dominio).

1991 – Origine dell’attività eruttiva

I numerosi studi eseguiti da vari team di scienziati durante e dopo l’eruzione, hanno condotto alla stesura di un libro (“Fire and Mud: eruption and lahars of Mt Pinatubo, Philippines”) curato dai due ricercatori che furono all’epoca i maggiori responsabili del monitoraggio del Pinatubo: Christopher Newhall e Raymundo Punongbayan. Il libro rappresenta un documento minuzioso sul risveglio di un vulcano dopo una lunga quiescenza e, con i suoi 62 articoli “tecnici”, scritti dai vari studiosi coinvolti nell’emergenza, racconta non solo la storia scientifica dell’eruzione ma anche quella umana, inclusi i numerosi eventi che l’accompagnarono.

Quale fu quindi il meccanismo di riattivazione del Pinatubo? La risposta è nel testo edito dai due scienziati, insieme a elementi utili a identificare, più in generale, un tipo di processo che spesso si verifica in un vulcano quiescente, spingendolo a tornare in eruzione. Gli studi sulle rocce emesse nel corso dell’eruzione, infatti, fornirono l’evidenza che la riattivazione del Pinatubo fu causata dall’arrivo di nuovo magma basaltico all’interno di una camera magmatica che si trovava ad una profondità fra i 7 e 12 km contenente un magma viscoso ricco in silice (dacite). Il mescolamento di questi due magmi produsse un nuovo magma ibrido più caldo e più ricco in gas del preesistente, capace di risalire verso la superficie, dove inizialmente formò un duomo sommitale. Le esplosioni successive alla formazione del duomo e la conseguente decompressione della camera magmatica innescarono la risalita di ulteriori volumi di magma, fino a giungere alla fase parossistica. Naturalmente, questo lo possiamo scrivere a distanza di molti anni e di molte ricerche, ma gli inizi dell’eruzione ed il suo corso furono tutt’altra cosa in termini scientifici, logistici, comunicativi ed emotivi. A questo proposito, consigliamo un interessante video riassuntivo e narrativo.

I fenomeni precursori

A partire dal 15 marzo del 1991, i residenti dei villaggi alle falde del vulcano cominciarono ad avvertire alcuni terremoti, senza peraltro notare variazioni nelle emissioni gassose delle fumarole di un’area geotermica sul versante nord-ovest del vulcano. Né furono segnalati crolli o frane sui versanti del vulcano. Il numero e l’intensità dei terremoti crebbero il 2 aprile, in particolare quando avvenne un’esplosione freatica, nel pomeriggio, proprio lungo quel versante. Il 3 aprile, la missionaria Emma Fondevilla, che abitava in un villaggio di Aeta (una delle popolazioni locali), riferì ai ricercatori del PHIVOLCS la notizia di questo evento. Un volo di verifica sul vulcano confermò che le esplosioni avevano generato un allineamento di punti di emissione di gas sul lato N-NO dell’apparato vulcanico (Figura 3).

Figura 3 - Fumarole sul versante Nord-Ovest del Monte Pinatubo (porzione superiore del fiume Maraunot), fotografate il 6 Aprile 1991. (Crediti fotografia: USGS Publication Repository).
Figura 3 – Fumarole sul versante Nord-Ovest del Monte Pinatubo (porzione superiore del fiume Maraunot), fotografate il 6 Aprile 1991. (Crediti fotografia: USGS Publication Repository).

A questo punto, venne costituito un team di studio e osservazione che attribuì questi fenomeni ad un’attività puramente idrotermale. Il 5 aprile fu installata la prima stazione sismica mobile, con segnali registrati su rullo cartaceo, da sostituire ogni 24h, a circa 7 km in direzione O-NO rispetto alla cima del vulcano. Furono in poco tempo registrati centinaia di terremoti, la cui analisi preliminare rivelava una natura di tipo vulcano-tettonico (VT). Si trattava infatti di terremoti che, pur avvenuti in un’area vulcanica, hanno caratteristiche del tutto simili a quelli che si verificano in aree non vulcaniche e tettonicamente attive del Pianeta e che sono interpretati come conseguenza della fratturazione di masse rocciose. Restò tuttavia l’incertezza di stabilire se la sismicità nel suo insieme fosse di origine sostanzialmente idrotermale, legata cioè alla rapida espansione dei fluidi nel sottosuolo, o dovuta al movimento di magma in risalita, e se fosse anticipatrice di un’eruzione vulcanica vera e propria. Nel dubbio, PHIVOLCS raccomandò l‘evacuazione precauzionale dei villaggi entro 10 km dalla cima del Pinatubo. Pertanto, le autorità civili, con l’aiuto di diverse organizzazioni non governative, istituirono campi di accoglienza che si riempirono rapidamente.

Nei giorni successivi furono installate altre 4 stazioni sismiche per consentire la localizzazione dei terremoti; le stazioni tuttavia furono collocate soprattutto sul fianco Ovest del vulcano, più facilmente raggiungibile, e quindi non permisero una localizzazione delle sorgenti sismiche con un’alta precisione. Per di più, i dati dovevano essere recuperati giorno per giorno ed inviati a Manila per la loro analisi. Durante questi primi giorni, fu anche deciso di redigere dei bollettini giornalieri con informazioni sull’attività sismica e sulle osservazioni visive raccolte nelle precedenti 24 ore. Ogni bollettino conteneva anche un giudizio sullo stato generale del vulcano e prima di essere diffuso subiva revisioni e vari passaggi di verifica con le autorità. Il termine ricorrente scelto per descrivere le condizioni del vulcano fu “instabile”.

I geologi del PHIVOLCS e quelli dell’USGS (insieme ad altri studiosi come. H. Ferrer e F.G. Delfin Jr., della Philippine National Oil Company e M. Defant della University of South Florida) iniziarono anche a raccogliere i dati su quel poco che si sapeva sulla recente storia eruttiva del vulcano e sui suoi depositi. Da questa raccolta e dagli studi geologici condotti rapidamente durante questa fase di “instabilità” (unrest è il termine usato dalla comunità vulcanologica), si comprese che la storia del vulcano era caratterizzata da poche eruzioni ad alta energia intervallate da lunghi periodi di quiescenza. Le eruzioni avevano generato imponenti flussi piroclastici i cui depositi furono trovati anche a decine di chilometri di distanza. Questi scienziati scoprirono inoltre che i dolci pendii attorno al Pinatubo erano in realtà originati dalla sovrapposizione di innumerevoli e giganteschi depositi di lahar, termine indonesiano che indica una colata di fango. Gli scienziati ritennero quindi concreta la possibilità che una nuova attività eruttiva potesse dar luogo a fenomeni eruttivi simili a quelli del passato, con effetti potenzialmente disastrosi.

Verso la fine di aprile fu definito un accordo di cooperazione più ampio fra il PHIVOLCS e l’USGS e, conseguentemente, furono installate altre sette stazioni sismiche che trasmettevano i dati ad un centro collocato presso la base aerea americana “Clark”, a 29 km dal vulcano. Con queste stazioni, la localizzazione e la stima delle magnitudo dei terremoti miglioró decisamente.

Durante il mese di maggio, i sismometri registrarono fino a 200 piccoli terremoti al giorno e i sismogrammi continuavano ad indicare eventi di tipo VT, localizzati ad una profondità tra 3 e 7 km. Tuttavia, durante l’ultima settimana del maggio 1991, la sismicità aumentò e si spostò verso livelli più superficiali sotto la sommità del vulcano, con associati eventi di tremore vulcanico in occasione di piccole esplosioni.

Sempre nel mese di maggio iniziarono le misure dei gas emessi dalle fumarole ed in particolare dei flussi di SO2 (biossido di zolfo) attraverso la tecnica COSPEC (Correlation Spectrometry), che rivelò valori intorno alle 500 tonnellate al giorno.

Riassumendo, le osservazioni raccolte durante i mesi di marzo e aprile furono fortemente indicative di un certo volume di magma in risalita al di sotto dell’apparato vulcanico da una profondità di circa 30-35 km. Questa risalita era responsabile delle migliaia di terremoti medio-piccoli di cui si è detto, nonché dell’essoluzione, della risalita e della conseguente emissione di gas in grado di provocare le potenti esplosioni freatiche che formarono tre crateri sul fianco nord del vulcano. Le misure delle emissioni di gas furono di grande aiuto per capire che i terremoti non potevano essere solo vulcano-tettonici e/o di origine idrotermale e che c’era un coinvolgimento diretto di magma in risalita. Questa evidenza divenne lampante il 28 maggio, quando si registrò una crescita di 10 volte (fino a 5.000 tonnellate al giorno), nell’emissione di SO2, gas direttamente liberato dal magma.

Inizio dell’attività eruttiva

All’inizio di giugno si verificarono sia una riduzione drastica delle emissioni di SO2 (circa 250 tonnellate al giorno), sia un aumento della frequenza dei terremoti e dei segnali di tremore vulcanico, associati a piccole esplosioni al cratere sommitale. E’ bene ricordare a questo punto che il 5 di giugno PHIVOLCS emise un annuncio di allerta a livello 3, che indicava una possibile grande eruzione piroclastica entro 2 settimane. Le osservazioni ottenute dai sorvoli in elicottero, combinate coi dati fisico-chimici registrati nei primi dieci giorni di giugno, suggerirono che un primo volume di magma piuttosto degassato aveva raggiunto la superficie del vulcano Pinatubo a partire dal 7 giugno, formando un duomo di lava e senza produrre un’eruzione esplosiva. Tuttavia il 10 giugno le emissioni di SO2 balzarono fin oltre le 13.000 tonnellate al giorno, preannunciando di fatto l’arrivo in superficie di milioni di metri cubi di magma ricco in gas, che diedero vita alla prima spettacolare eruzione del vulcano il 12 giugno (Figura 4), proprio nel giorno dell’Indipendenza delle Filippine.

La colonna eruttiva raggiunse i 18 chilometri d’altezza, restando attiva per circa 45 minuti. Nella notte del 12, e ancora il 13 e il 14 giugno, ci furono altre tre eruzioni esplosive di minore durata, ma con colonne di altezza superiore ai 20 chilometri. Durante questa fase la sismicità si intensificò e nel pomeriggio del 14 aumentarono le esplosioni con la formazione di flussi piroclastici.

Figura 4 - Colonna eruttiva del 12 giugno ripresa dalla base aerea USA di Clark (Photo by Dave Harlow, 1991 - U.S. Geological Survey - Public Domain).
Figura 4 – Colonna eruttiva del 12 giugno ripresa dalla base aerea USA di Clark (Photo by Dave Harlow, 1991 – U.S. Geological Survey – Public Domain).

Il 15 giugno un magma ancora più carico di gas raggiunse la superficie del Pinatubo, accompagnato da un tremore di ampiezza elevata, tale da saturare (ossia fino a superare il valore di fondo scala, che è il massimo valore che uno strumento può registrare) tutte le stazioni sismiche intorno al vulcano e renderne poco utilizzabile il segnale. Iniziò qui la fase parossistica dell’eruzione: l’esplosione emise più di 5 km3 di materiale magmatico, la nube di ceneri si innalzò fino a 34-35 chilometri di altezza e si espanse nella stratosfera fino a raggiungere un diametro di 400 km. Dopo un’ora, la nube eruttiva occupava un’area di 120.000 km2. Le ceneri della nube presenti ad altezze inferiori furono sospinte in tutte le direzioni dagli intensi venti provocati da un tifone attivo in coincidenza con l’eruzione. La cenere giunta alle massime altezze fu spinta fino all’Oceano Indiano. Contestualmente, enormi flussi piroclastici si riversarono lungo i fianchi del Monte Pinatubo (Figura 5), riempiendo profonde valli con depositi vulcanici fino a 200 metri di spessore.

Figura 5 - La famosa e iconica foto scattata da Albert Garcia il 15 giugno sul Pinatubo che vinse il primo premio nella competizione World Press Photo Competition del 1992 ad Amsterdam. In questo video l’autore racconta lo scatto.
Figura 5 – La famosa e iconica foto scattata da Albert Garcia il 15 giugno sul Pinatubo che vinse il primo premio nella competizione World Press Photo Competition del 1992 ad Amsterdam. In questo video l’autore racconta lo scatto.

A partire dal primo pomeriggio del 15 una serie di violenti terremoti, con magnitudo compresa fra 4.3 e 5.7, scossero il Pinatubo associati al collasso, almeno parziale, della camera magmatica e della sommità del vulcano, con la conseguente formazione di una piccola caldera di 2.5 km di diametro. Con quasi tutte le stazioni sismiche fuori uso, solo attraverso il segnale registrato da un barografo intorno alle 22.30 del 15 giugno si poté decretare il termine dell’eruzione.

Nubi eruttive molto più piccole, ma pur sempre spettacolari, si ripeterono occasionalmente fino all’inizio di settembre 1991. E l’anno dopo, fra luglio e ottobre, un nuovo duomo lavico crebbe all’interno della caldera del Pinatubo.

Gli effetti immediati dell’eruzione

Nel corso delle circa nove ore di fase parossistica dell’eruzione, il Pinatubo ha emesso tra i 5 e i 10 km3 di magma, a seconda delle stime fatte negli anni successivi, con una dinamica eruttiva di tipo pliniano ed un tasso di emissione del magma dell’ordine di 109 kg/s. Questa eruzione ha prodotto un notevolissimo impatto di tipo sociale, economico e ambientale su tutto l’arcipelago delle Filippine, per gli anni successivi. I flussi piroclastici, i lahars e l’accumulo di ceneri sui tetti hanno provocato moltissimi danni e vittime (350 durante l’eruzione e 722 in totale includendo quelle causate dai fenomeni immediatamente successivi all’eruzione). I danni sono stati quantificati in 700 milioni di dollari, di cui 100 milioni sono stati riferiti a quelli provocati a 16 aerei in volo al momento dell’eruzione e 250 milioni di dollari da attribuirsi alle risorse di agricoltura, silvicoltura e terra.

Un fattore che ha influito molto sulla dispersione della cenere è stato il tifone Yunya, in corso contemporaneamente all’eruzione, che ha indirizzato molta cenere soprattutto verso l’isola di Luzon. Questa combinazione di fattori ha dato origine a depositi di ceneri bagnate, che hanno aumentato il carico sui tetti e fatto crescere il bilancio delle vittime dovute al crollo degli stessi.

Dopo il climax: gli anni dei lahar

I circa 5 km3 di ceneri e materiale piroclastico depositati durante le fasi parossistiche dell’eruzione iniziarono, in poche ore, a dare origine a velocissimi e giganteschi lahar, innescati dalle intense piogge tropicali. Benché un lahar contenga almeno il 40% in peso di cenere e rocce, che lo rendono denso e viscoso quanto il calcestruzzo liquido, esso può scorrere ad alta velocità (fino a 65 km/h) e raggiungere, a seconda della topografia, una distanza anche di 80 km. Nel caso del Pinatubo, all’arrivo nelle zone più pianeggianti alla sua base, i lahar rallentarono (velocità di circa 30-35 km/h) ma si aprirono “a ventaglio”, inondando aree di svariati chilometri quadrati. In quelle zone si sono osservati lahar con spessori di 10 metri, fronti di 100 metri di larghezza, e portate di circa 100 m3/s. Flussi di questo tipo hanno la capacità di trasportare grossi massi e grandi oggetti come automobili e distruggere ponti. Negli anni successivi alle eruzioni del giugno 1991, l’innesco di continui lahar ad ogni episodio di pioggia intensa tropicale ha causato più devastazione dell’eruzione stessa nella sua fase parossistica, specialmente nelle aree a bassa quota attorno al Pinatubo (Figura 6). Si stima che nel corso di pochi anni successivamente agli eventi del 1991 il volume di materiale vulcanico trasportato a valle dai lahar sia stato di circa 3 km3.

Figura 6 - Effetto di un lahar nell’agosto 1991 (due mesi dopo le eruzioni di giugno) lungo il fiume Sacobia-Bamban, a 15 miglia dal Pinatubo. Nella foto grande si vedono le falde del tetto della casa, che prima del lahar appariva come nella foto piccola in basso a destra. (Fotografia di Raymundo S. Punongbayan, Philippine Institute of Volcanology and Seismology, da “Fire and Mud: eruption and lahars of Mt Pinatubo, Philippines”, https://pubs.usgs.gov/pinatubo/index.html.)
Figura 6 – Effetto di un lahar nell’agosto 1991 (due mesi dopo le eruzioni di giugno) lungo il fiume Sacobia-Bamban, a 15 miglia dal Pinatubo. Nella foto grande si vedono le falde del tetto della casa, che prima del lahar appariva come nella foto piccola in basso a destra. (Fotografia di Raymundo S. Punongbayan, Philippine Institute of Volcanology and Seismology, da “Fire and Mud: eruption and lahars of Mt Pinatubo, Philippines”, https://pubs.usgs.gov/pinatubo/index.html.)

Un tipo di lahar particolarmente pericoloso, verificatosi almeno 3 volte  (nel 1991, 1992 e 1994) a seguito delle eruzioni del Pinatubo, è quello dovuto allo sbarramento di corsi d’acqua per accumulo di materiale vulcanico. Questo sbarramento, unito all’intensa pioggia tropicale, causa la formazione di un lago “effimero” che, una volta raggiunto il livello della “diga” temporanea, tracima e la erode velocemente, rilasciando istantaneamente una grande quantità d’acqua e dando quindi origine ad un lahar gigantesco.

Gli effetti globali dell’eruzione

Oltre agli effetti economici, le eruzioni del Pinatubo del 1991 sono state responsabili di un effetto globale: il temporaneo raffreddamento di 0.5 gradi Celsius, protrattosi per circa due anni, della temperatura media globale. Questo evento, già sperimentato  dall’umanità in misura maggiore a seguito dell’eruzione del Tambora del 1815 (la maggiore eruzione per energia e volume eruttivo negli ultimi 2000 anni), avviene quando le colonne eruttive penetrano la stratosfera iniettando SO2; questo gas, in reazione con l’acqua, forma uno strato di particelle di aerosol di acido solforico che vengono diffuse orizzontalmente dai forti venti stratosferici (Figura 7). Nella stratosfera, in cui non sono presenti né le nubi né la pioggia a “lavare via” queste particelle, queste possono resistere anni prima che i processi chimici e la circolazione atmosferica riescano a rimuoverle. Nel frattempo esse diffondono e assorbono le onde solari in arrivo verso la Terra, diminuendo l’energia che riesce a raggiungere gli strati bassi dell’atmosfera, dove, di conseguenza, la temperatura media si abbassa. Nel caso del Pinatubo questo raffreddamento, dovuto all’iniezione di circa 15 milioni di tonnellate di SO2 nel giugno 1991, è stato misurato strumentalmente per la prima volta nella storia. Il processo di raffreddamento è stato particolarmente efficace per via della latitudine tropicale a cui il Pinatubo si trova, alla quale i venti stratosferici sono particolarmente forti.

Figura 7 - Fotografia della NASA (STS043-22-23) scattata l'8 agosto 1991, meno di due mesi dopo l'eruzione del vulcano Pinatubo. Gli strati scuri (neri) rappresentano accumuli di aerosol che creano nell'atmosfera due orizzonti distinti. L'altitudine stimata degli strati di aerosol in questa immagine è compresa tra 20 e 25 km, coerente con le misurazioni effettuate da altri strumenti spaziali (SAGE II e AVHRR; Global Volcanism Program, 1991; Self et al., 1996).
Figura 7 – Fotografia della NASA (STS043-22-23) scattata l’8 agosto 1991, meno di due mesi dopo l’eruzione del vulcano Pinatubo. Gli strati scuri (neri) rappresentano accumuli di aerosol che creano nell’atmosfera due orizzonti distinti. L’altitudine stimata degli strati di aerosol in questa immagine è compresa tra 20 e 25 km, coerente con le misurazioni effettuate da altri strumenti spaziali (SAGE II e AVHRR; Global Volcanism Program, 1991; Self et al., 1996).

La gestione dell’emergenza e l’importanza della comunicazione del rischio

Per la vulcanologia moderna le eruzioni del Pinatubo del 1991 rappresentano comunque un caso esemplare di corretta gestione dell’emergenza: nonostante, purtroppo, il bilancio sia stato di un migliaio di vittime, esso sarebbe stato drammaticamente più alto se nelle settimane precedenti non si fosse lavorato alacremente per:

  • studiare e ricostruire la storia eruttiva del vulcano per identificare i possibili rischi connessi alla sua attività;
  • ampliare il sistema di monitoraggio e migliorare l’interpretazione dei dati del monitoraggio, per fornire previsioni corrette dell’evoluzione dell’attività vulcanica;
  • comunicare efficacemente il rischio verso le autorità e la popolazione.

Su quest’ultimo aspetto va detto che, durante le settimane precedenti il 15 giugno 1991, le autorità locali e i comandanti della base aerea Clark, nonché la popolazione, avevano avuto numerosi incontri con i vulcanologi del PHIVOLCS e dell’USGS. Per la prima volta nella storia della vulcanologia, la comunicazione del rischio entrava come fattore determinante nella gestione del rischio stesso.

Un famoso esempio riguarda le innumerevoli copie “artigianali”, mostrate e distribuite alla popolazione e alle autorità locali, del video “Understanding Volcanic Hazards” realizzato e prodotto in anteprima da Maurice Krafft per la International Association on Volcanology and Chemistry of the Earth’s Interior (IAVCEI). Questo video, realizzato in risposta al tragico disastro (anche comunicativo) del Nevado del Ruiz, mostra chiaramente gli effetti distruttivi di alcuni eventi che accompagnano l’attività vulcanica, tra cui la formazione e propagazione dei flussi piroclastici e dei lahar, evidenziando quanto velocemente e quanto lontano questi fenomeni possano viaggiare, ed il loro tremendo impatto su persone e edifici. Benché, sulle prime, il video venisse accolto con scetticismo dalle popolazioni e autorità filippine, si ritiene che esso abbia in realtà spinto verso la decisione di spostare decine di migliaia di persone dalle aree minacciate da flussi piroclastici e lahar, ed aumentato la consapevolezza sul rischio vulcanico. E, come spesso narra Chris Newhall (uno dei vulcanologi che hanno fatto la storia dell’emergenza del Pinatubo), la decisione stessa dei vulcanologi di allontanare di 5 km il loro centro operativo locale il 10 giugno, unita alla notizia della morte dei coniugi Krafft (gli autori del video suddetto, uccisi proprio da un flusso piroclastico in Giappone pochi giorni prima), convinse definitivamente i comandanti della base militare Clark ad evacuare nello stesso giorno i 14.500 dipendenti e lavoratori della base.
Il risultato di tutti questi sforzi comunicativi ed operativi fu comunque che, in poche settimane, decine di migliaia di persone vennero evacuate dalle zone a più alto rischio: i numeri ufficiali dicono che, entro la sera del 14 giugno 1991, quasi 50.000 persone erano state spostate verso accampamenti al sicuro, oltre ai 14.500 lavoratori della base aerea americana. Senza queste operazioni di comunicazione e le conseguenti decisioni sulle evacuazioni, il bilancio del giugno 1991 sarebbe stato senza dubbio molto peggiore.


Bibliografia

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